Socci insegue Maria Valtorta e avanza dubbi sulla tomba di Pietro

Socci insegue Maria Valtorta
e avanza dubbi sulla tomba di Pietro

DI ANDREA GALLI

Da Avvenire del 16/05/2012

La  vicenda  è  contenuta  nei Quadernetti di Maria Valtorta, degli inediti della mistica di Viareggio pubblicati nel 2006 ma passati inosservati. Antonio Socci l’ha ripresa e ne ha fatto il perno del suo ultimo libro, I giorni della tempesta (in libreria da oggi da Rizzoli), un giallo metafisico ambientato nel 2015 tra un conclave, orditi criminali e persecuzioni contro la Chiesa, con temi e personaggi che prendono spunto dall’attualità e che faranno discutere. Si tratta di una relazione che Valtorta scrisse per Pio XII tra il febbraio e l’ottobre del 1949, indirizzandogliela – non sappiamo se però giunse a destinazione – tramite  monsignor  Alfonso  Carinci, l’allora segretario della Sacra congregazione dei riti. Era la risposta a una richiesta fatta a Maria Valtorta da personalità di curia a nome del Pontefice, dopo che in Vaticano si era saputo di sue visioni riguardanti la morte e la sepoltura di Pietro. Da dieci anni, infatti, erano in corso con grande  riservatezza  gli  scavi  archeologici sotto l’altare della Confessione della basilica di San Pietro: iniziati in concomitanza con il tentativo di allestire una sistemazione per la sepoltura di Pio XI e continuati per cercare le tracce del sepolcro dell’apostolo, se possibile anche i resti del suo corpo. Valtorta obbedì a quel sollecito vaticano e in una serie di scritti molto articolati riportò quel che Gesù le aveva concesso di “vedere”: Pietro non era mai stato sepolto sul colle Vaticano, luogo del martirio, ma le sue spoglie erano state deposte e custodite dai cristiani in quelle che oggi sono conosciute  come  le  catacombe  dei santi Marcellino e Pietro, sulla via Casilina.

Le ricerche sotto la basilica portarono al solenne annuncio del ritrovamento della tomba dell’apostolo da parte di Pio XII, nel radiomessaggio del 23 dicembre 1950, alla fine dell’Anno Santo. Ma il dibattito fra gli specialisti andò avanti, sotto traccia. Non solo quindi la disputa sulle ossa rinvenute in un loculo del “muro G” a nord dello spazio sepolcrale e che vide scontrarsi per decenni – tutt’altro che sotto traccia – l’archeologo gesuita Antonio Ferrua e l’epigrafista Margherita Guarducci. Con il primo che aveva partecipato agli scavi  e  sempre negò  che  i frammenti ossei potessero  essere attribuiti  a Pietro e la seconda  che, pur  entrando in scena a scavi  finiti, difese con tutta la passione e la determinazione di cui era capace l’identità petrina di quei resti, fino a convincere o comunque a orientare a suo favore il giudizio di Paolo VI.

Rilanciando le misteriose pagine di Maria Valtorta, Socci le mette in parallelo alla posizione di quegli studiosi che pensano sia giunto il momento di riparlare con serenità della questione della tomba di Pietro, ora che il tema si è in qualche modo sedimentato e sono venute meno certe urgenze apologetiche del dopoguerra (nessuno storico serio contesta più la presenza e la morte del capo degli apostoli a Roma). Uno di questi è per esempio Carlo Carletti, docente di Epigrafia e Antichità cristiane all’Università di  Bari  e membro della Pontificia  commissione di archeologia sacra, che in un lungo articolo uscito sull’Osservatore Romano il 23 ottobre 2008 ha sostenuto che il riferimento cronologico più alto individuabile nell’area degli scavi risale all’epoca di Marco Aurelio (161180), non prima; e molti dati lasciano intendere che il famoso “trofeo di Gaio” ritrovato nel sottosuolo in corrispondenza con l’altare del Bernini, più che la tomba doveva essere un monumento per ricordare il luogo del supplizio di Pietro. Giudizio molto distante da quello di Danilo Mazzoleni, docente di Archeologia cristiana all’Università di Roma Tre e decano del Pontificio istituto di archeologia cristiana, che ritiene invece «incontrovertibile» l’individuazione della tomba di Pietro. E richiama l’attenzione almeno su un fatto: «Costantino non avrebbe compiuto lavori spaventosi per costruire la basilica, livellando un colle e annientando la vita di una necropoli ancora in uso, se non si fosse reso conto che una delle condizioni essenziali della comunità cristiana era quella di non toccare l’ubicazione dei sepolcri dei martiri e in prima istanza di quello di Pietro». Una cosa sembra comunque, se non certa, probabile: tra la riscoperta del carteggio valtortiano, il romanzo di Socci e il convegno su padre Ferrua che si terrà l’anno prossimo a Cuneo, a dieci anni dalla sua scomparsa, della sepoltura del principe degli apostoli e primo vescovo di Roma si tornerà a parlare.

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